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Jon Spencer Blues Explosion – Freedom Tower

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New York City è una megalopoli estremamente rumorosa, molti dei suoi artisti si sono proprio formati all’ombra di quello stesso rumore. Il ritorno della Jon Spencer Blues Explosion è in pratica un morso feroce alla stessa cultura di strada della Big Apple, uno slancio vitale che prende il nome di  ‘Freedom Tower – No Wave Dance Party2015’, un titolo che già denuncia i suoi intenti rivelando certo la fascinazione per una delle più discusse correnti del dopo-punk, ma anche per la disco mutante che ha animato le sale del Danceteria e dello Studio 54.

Tutti i personaggi di serie b che hanno animato il cinema di genere e definito le frontiere culturali della grande mela sono presenti nella narrazione: lo spaccone e la bambola di fiducia,  il celebre cuoco, il poliziotto corrotto, gli artisti in sofferenza, ‘the sucker MC’ (come da slang locale), le prostitute dimenticate e la cenerentola alla sua ultima occasione. Una galleria vitale fatta di ritratti radicali, gli stessi omaggiati da Spencer/Bauer/Simins. Dall’inizio alla fine il disco ha un incedere nevrotico, è cucinato nella sporcizia e bagnato nella pioggia acida. E poi quelle rime montate su groove irresistibili, che del trio sono la specialità.

In tempi non sospetti la Blues Explosion aveva già flirtato con l’hip-hop, giusto in occasione di quei remix sperimentali che nel 2005 videro scendere in campo non solo Beck e Moby ma anche i due poco raccomandabili Wu-Tang Genius e Killah Priest. Il rock’n’roll sotto le mentite spoglie del rhythm’n’blues, nei mille volti di un gruppo che da sempre si pone ai vertici stilistici dell’underground, fiero nel ribadire i suoi trascorsi garage-thrash (con i suoi Pussy Galore Spencer ha definito i contorni del noise, riportandolo al suo stato primordiale). Registrato presso i leggendari Daptone House Of Soul di Bushwick e mixato da un personaggio influente nel circuito hip-hop come Alap Momin (Dalek) in quel di Harlem, ‘Freedom Tower’ è uno dei più provocatori stati del pathos urbano. Ci sono milioni di storie nella città nuda, ma c’è una sola Blues Explosion! La musica da protesta con cui danzare non è mai stata così ammaliante.

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Viet-Cong-self-titled-650x650

Viet Cong, L’eredità Degli Women

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Ci vogliono appena sessanta secondi del brano d’apertura ‘Newspaper Spoons’ per pronunciarvi sul carattere invernale dell’album di debutto di  Viet Cong. Per certo il disco è aspro nei toni, ferisce, insinuando acumi velenosi sottopelle. E’ il lavoro della proverbiale maturazione, dopo che il recente Ep per Mexican Summer ne aveva già illustrato la metodica strategia. Siamo in pieno fermento wave e la polaroid dei Viet Cong non è affatto sbiadita. Passando in rassegna i momenti più galvanizzanti di un’intera scena – quella britannica ad onor del vero – i nostri ci regalano una palpitante cronistoria che mai rinuncia alla citazione d’autore. Un ritmo marziale, una melodia minacciosa, una chitarra tagliente, tutto al momento giusto, come in una minuziosa carrellata cinematografica.

E’ lo stato dell’arte del post-punk, quello che molti protagonisti contemporanei hanno solo apparentemente sfiorato, mancando quel tocco risolutivo sotto porta. Le capacità realizzative dei nostri non sono infatti in discussione, l’abilità nel ricreare quelle atmosfere crepuscolari ha del divino. Predestinati in fin dei conti. Il loro maggior dono è la capacità di umanizzare pietre grezze, solchi glaciali di vinile, ricavando una carica emotiva che è il loro maggior vanto. Registrato  in un fienile trasformato per l’occasione in uno studio di registrazione – in Ontario, parecchio fuori mano – il disco si regge su sette febbricitanti episodi già opportunamente testati dal vivo. Jagjaguwar è così lieta di introdurre la creatura definitiva di Pat Flegel in combutta con Mike Wallace, Scott Munro e Daniel Christiansen. Flegel e Wallace (rispettivamente chitarra/voce e batteria) tornano per certi versi all’ovile, ricomponendo la brusca frattura che aveva portato allo scioglimento dei Women, prodigiosi interpreti dell’indie più avveniristico, scomparsi a mala pena dopo due album. Fu un lutto a decretare la fine di quella ispirata esperienza, la disgraziata morte nel sonno del chitarrista Christopher Reimer pose la pietra tombale sui Women.

Si riparte con le figure di basso di  ‘Silhouettes’, quasi un’ ode ai Joy Division, uno dei punti fermi di questa nuova  raccolta di potenziali singoli che girano sullo struggimento interiore per cercare una nuova via oltre il crepuscolo quotidiano. Preziosa anche ‘Continental Shelf’ un gioiello proto-punk ipercinetico che conferma semmai l’asse su cui il gruppo muove. L’urgenza dei migliori artigiani white-funk unita alla proverbiale mise del rock gotico, in sintesi questo il gioco di specchi su cui poggia l’omonimo esordio lungo dei quattro. Desolate poesie periferiche pronte ad intersecare la vostra impenitente esistenza.

http://www.youtube.com/watch?v=hdMz7BUtOvk

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