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Jenny Hval, l’apocalisse della ragazza

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Per chi abitualmente frequenta il catalogo Rune Grammofon e le vicissitudini della musica indipendente scandinava, il nome di Jenny Hval non suonerà certo inedito. Questa è la sua – letterale – benedizione internazionale sotto l’egida di Sacred Bones, che ne pubblica la nuova fatica discografica. Il suo nuovo album si inaugura con una citazione del poeta danese Mette Moestrup, e continua affacciandosi oltre l’abisso. La ragazza dell’apocalisse riportata nel titolo, rivela una narrativa allucinante sospesa tra realtà e finzione, un’ opera che del sogno febbrile fa tesoro, indagando in quella colorata sospensione spazio-temporale tra morte e rinascita. Il tutto raccontato con il linguaggio trasgressivo della musica pop.
Quando la leggenda noise norvegese Lasse Marhaug ha intervistato Jenny Hval per la sua fanzine nel 2014, hanno iniziato a discorrere di film e la conversazione si è rivelata così interessante da spingere la nostra a chiedere una supervisione allo stesso Marhaug per il suo album successivo. L’argomento cinematografico si è rivelato un punto focale nella produzione da studio. Le canzoni della Hval si sono progressivamente evolute dal corpo gelido costituto da sparute forme melodiche e di loop al computer, grazie ai contributi dei colleghi usuali Håvard Volden e Kyrre Laastad. Fino ad arrivare alle esplorazioni totali del corpo musicale con l’ingresso di esterni quali Øystein Moen (Jaga Jazzist/Puma), Thor Harris (Swans), e dei campioni della musica da camera improvvisata  Okkyung Lee (cello) e Rhodri Davis (arpa). Tutti questi musicisti hanno almeno due cose in comune: sono feroci nel loro approccio pur conservando un grande orecchio per l’intimità, e la loro capacità è proprio nell’udire musica tanto nella chiusura di una valigia quanto in una melodia meravigliosa. Questo disco è così una bestia, almeno visivamente parlando. Immaginate una vecchia pellicola di fantascienza dove le ragazze del coro gospel sono in realtà delle eroine punk che comandano il mondo con i loro impulsi auto-erotici. Jenny Hval ha sviluppato un suo stile unico e per certi versi autobiografico, a partire dal suo debutto nel 2006. Ha toccato vertici artistici importanti nel 2013 con ‘Innocence Is Kinky’ (Rune Grammofon), ponendo in maniera definitiva il linguaggio al centro delle sue composizioni, inseguendo così le teorie di una grande innovatrice come Laurie Anderson.
’Apocalypse Girl’ è una di quelle rappresentazioni originali che non temono repliche, la dimostrazione di come il pop possa ancora divenire un’arma sensuale e velenosa allo stesso tempo, ribadendo i suoi contatti con le avanguardie storiche. In questa ricerca estenuante Jenny riesce a dare forma compiuta ai suoi esperimenti canori, conquistando con un’arma rara: la familiarità.

 

 

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Blanck Mass, L’altro Fuck Buttons

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Blanck Mass è il progetto solista di Benjamin John Power dei Fuck Buttons. Con questa sigla si muove parallelamente al gruppo madre dal 2010. Descritto da Fact magazine come “simultaneamente lenitivo e grandiosamente devastante, esoterico e sorprendentemente accessibile”, il suo omonimo album di debutto è stata un’elegante –  e tutto sommato introspettiva – dipartita dall’elettronica in forma stadio (ricordate la cerimonia dei giochi olimpici inglesi ?) con cui si era fatto conoscere. Proprio nel 2012, il suo brano “Sundowner” fece bella mostra in quella uscita ufficiale, raggiungendo un numero di utenti stimato intorno ai 900 milioni di unità. La sua nuova prova solista è stata concepita, prodotta e registrata in diverse location nell’arco di un anno.
Proprio come un pezzo d’arte ‘Dumb Flesh’  commenta le imperfezioni del corpo umano nel presente arco evolutivo. La fragilità del corpo diviene naturalmente parte risonante ed ineffabile nella gestazione del disco. L’album è passato attraverso una miriade di stadi prima di giungere al suo definitivo completamento. Power ci tiene a precisare che: “ci sono state almeno tre occasioni in cui ho riprodotto integralmente il disco, sostituendo la strumentazione e sperimentando con nuove macchine fino all’essere completamente soddisfatto dello stadio del progetto” La diffusione geografica delle sessioni si riflette negli scenari cangianti del disco, che ciononostante mantiene livelli di coerenza invidiabili, pur approntando di volta in volte rigorose sterzate stilistiche. La forza di Blanck Mass è tutta nel passaggio da momenti di pura beltà ambient a risolute frasi in cui un beat techno prende il sopravvento. Uno spettro elettronico cui difficilmente si può rinunciare.

Proprio come un pezzo d’arte ‘Dumb Flesh’  commenta le imperfezioni del corpo umano nel presente arco evolutivo. La fragilità del corpo diviene naturalmente parte risonante ed ineffabile nella gestazione del disco. L’album è passato attraverso una miriade di stadi prima di giungere al suo definitivo completamento. Power ci tiene a precisare che: “ci sono state almeno tre occasioni in cui ho riprodotto integralmente il disco, sostituendo la strumentazione e sperimentando con nuove macchine fino all’essere completamente soddisfatto dello stadio del progetto” La diffusione geografica delle sessioni si riflette negli scenari cangianti del disco, che ciononostante mantiene livelli di coerenza invidiabili, pur approntando di volta in volte rigorose sterzate stilistiche. La forza di Blanck Mass è tutta nel passaggio da momenti di pura beltà ambient a risolute frasi in cui un beat techno prende il sopravvento. Uno spettro elettronico cui difficilmente si può rinunciare.