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Chelsea Wolfe, l’abisso del subconscio

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Chelsea Wolfe ritorna con il suo quinto album da studio, Abyss previsto per il 7 di agosto su Sargent House. Nel corso di 4 album la nostra ha messo in campo una tensione costante, fatta di distorsioni e nebulose territoriali dove le lunghe ombre si allungano oltre il confine del sublime, conservando un’infinita grazia. Se fino ad ora le prove e le tribolazioni della Wolfe – sempre a cavallo tra sogno e realtà – hanno rappresentato un’influenza subconscia sul suo lavoro, con Abyss si confronta deliberatamente con questi confini e plasma quella che è una colonna sonora da lei stessa descritta come “oltre la nebbia . . . una tempesta invertita . . . l’oscurità rovesciata . . . l’abisso del tempo.”
Il suo materiale è sempre apparso intensamente privato, dalle produzioni casalinghe quasi ai confini col voyeuristico dell’album di debutto The Grime and the Glow  sino alle rigide tematiche ed atmosfere del penultimo parto Pain Is Beauty del 2013. “Abyss è stato concepito con lo scopo di replicare lo stato del sonno REM, quando stai sognando e brevemente ti svegli ricadendo immediatamente nello stesso sogno, nuotando velocemente nel tuo stesso subconscio” dice la Wolfe. Per rappresentare adeguatamente questo mondo di mezzo, ha ribadito la sua collaborazione con il polistrumentista e co-autore Ben Chisholm e con il batterista Dylan Fujioka, contando peraltro sul figlio d’arte ed ex-Gowns Ezra Buchla alla viola e  Mike Sullivan (Russian Circles) alla chitarra. L’ensemble si è diretto a Dallas, TX per registrare con il produttore John Congleton (Swans, St. Vincent). Un solo diktat in mente, le parole del designer Yohji Yamamoto: “La perfezione è brutta. Alle volte nelle cose prodotte dagli essere umani voglio vedere le ferite, il fallimento, il disordine e la distorsione” Le 11 canzoni che risultano da questo sforzo collettivo riflettono questa filosofia, confrontandosi coi numerosi aspetti della psiche ed evidenziando la fragilità del nostro essere, l’intimità, la quieta passione, l’ansia e la profonda bramosia.
Il disco si apre con il disorientante barcollare di “Carrion Flowers”, dove la Wolfe rilascia un’ipnotica melodia vocale oltre un monotono tonfo simil-industriale, come in un raga indiano costruito attorno ad una singola nota. Per “Iron Moon” la band spinge oltre gli estremi le sue strategie che prevedono un andamento forte-piano, alternandosi tra una polverosa ballata e slanci simil-doom. Altrove abbiamo la ninna-nanna di “Maw” e le sublimi aperture acustiche di “Crazy Love”. Ma nel mezzo trova alloggio “After The Fall”, proprio il brano più rappresentativo del disco con i sui brutali cambi tonali e la progressiva sequenza degli accordi che permettono alla Wolfe di raggiungere un climax interpretativo che molto deve alla sua fascinazione per Memories, Dreams, Reflections  di Carl Jung.
Tutti gli argomenti correlati al sonno ed al sogno hanno da sempre inseguito l’oscura protagonista, . questioni che sono divenute identitarie e da sempre hanno costituito il corpo su cui montare le liriche ad effetto dei singoli album. Ed Abyss più di ogni altra cosa rappresenta questa dicotomia tra irreale e concreto, una battaglia tra coscienza e ricordi remoti.

 

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Viet Cong, L’eredità Degli Women

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Ci vogliono appena sessanta secondi del brano d’apertura ‘Newspaper Spoons’ per pronunciarvi sul carattere invernale dell’album di debutto di  Viet Cong. Per certo il disco è aspro nei toni, ferisce, insinuando acumi velenosi sottopelle. E’ il lavoro della proverbiale maturazione, dopo che il recente Ep per Mexican Summer ne aveva già illustrato la metodica strategia. Siamo in pieno fermento wave e la polaroid dei Viet Cong non è affatto sbiadita. Passando in rassegna i momenti più galvanizzanti di un’intera scena – quella britannica ad onor del vero – i nostri ci regalano una palpitante cronistoria che mai rinuncia alla citazione d’autore. Un ritmo marziale, una melodia minacciosa, una chitarra tagliente, tutto al momento giusto, come in una minuziosa carrellata cinematografica.

E’ lo stato dell’arte del post-punk, quello che molti protagonisti contemporanei hanno solo apparentemente sfiorato, mancando quel tocco risolutivo sotto porta. Le capacità realizzative dei nostri non sono infatti in discussione, l’abilità nel ricreare quelle atmosfere crepuscolari ha del divino. Predestinati in fin dei conti. Il loro maggior dono è la capacità di umanizzare pietre grezze, solchi glaciali di vinile, ricavando una carica emotiva che è il loro maggior vanto. Registrato  in un fienile trasformato per l’occasione in uno studio di registrazione – in Ontario, parecchio fuori mano – il disco si regge su sette febbricitanti episodi già opportunamente testati dal vivo. Jagjaguwar è così lieta di introdurre la creatura definitiva di Pat Flegel in combutta con Mike Wallace, Scott Munro e Daniel Christiansen. Flegel e Wallace (rispettivamente chitarra/voce e batteria) tornano per certi versi all’ovile, ricomponendo la brusca frattura che aveva portato allo scioglimento dei Women, prodigiosi interpreti dell’indie più avveniristico, scomparsi a mala pena dopo due album. Fu un lutto a decretare la fine di quella ispirata esperienza, la disgraziata morte nel sonno del chitarrista Christopher Reimer pose la pietra tombale sui Women.

Si riparte con le figure di basso di  ‘Silhouettes’, quasi un’ ode ai Joy Division, uno dei punti fermi di questa nuova  raccolta di potenziali singoli che girano sullo struggimento interiore per cercare una nuova via oltre il crepuscolo quotidiano. Preziosa anche ‘Continental Shelf’ un gioiello proto-punk ipercinetico che conferma semmai l’asse su cui il gruppo muove. L’urgenza dei migliori artigiani white-funk unita alla proverbiale mise del rock gotico, in sintesi questo il gioco di specchi su cui poggia l’omonimo esordio lungo dei quattro. Desolate poesie periferiche pronte ad intersecare la vostra impenitente esistenza.

http://www.youtube.com/watch?v=hdMz7BUtOvk